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La patente revocata in ritardo va restituita

Con sentenza depositata in data 16.4.2020, il Giudice di Pace di Treviso ha accolto il ricorso promosso contro un provvedimento di revoca della patente emesso dalla Prefettura dopo che il Tribunale penale aveva pronunciato sentenza di estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza per esito positivo della messa alla prova. 

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    Questa la tesi sostenuta dal ricorrente e condivisa dal Giudice. La Prefettura, dopo la declaratoria di estinzione del reato agisce quale autorità amministrativa che applica autonomamente la revoca della patente ai sensi dell’art. 224, comma 3, codice della strada. In altri termini, l’Autorità amministrativa non è chiamata a dare esecuzione a una sentenza emessa dal Giudice penale con cui sia stata applicata una sanzione amministrativa accessoria, ma a valutare autonomamente, e sulla base di una propria istruttoria, se irrogare o meno la sanzione stessa. Tale punto deve ritenersi oramai indiscusso, alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale già espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590), per il quale “quando manca una pronunzia di condanna o di proscioglimento” – come per l’appunto si verifica nel caso di esito positivo della messa alla prova – “le sanzioni amministrative riprendono la loro autonomia ed entrano nella sfera di competenza dell’amministrazione pubblica. Tale regola è espressa testualmente con riferimento all’istituto della prescrizione, ma ha impronta per così dire residuale: è cioè dedicata alle situazioni in cui condanna o proscioglimento nel merito manchino. In definitiva, il Giudice il quale – come nel caso in esame – pronunci sentenza di intervenuta estinzione del reato ex art. 168 ter, comma 2, c.p., per positivo esito della messa alla prova, non può e non deve applicare la sanzione amministrativa accessoria, che verrà poi applicata dal Prefetto competente a seguito di trasmissione degli atti da parte del Cancelliere ed in seguito a passaggio in giudicato della sentenza che tale estinzione del reato accerta e dichiara (ex art. 224, comma 3, c.d.s.) (così, proprio con riferimento ad una sentenza di dichiarazione d estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova,  in Cass. pen., sez. IV, 19/10/2016, n. 47991).


    E nel caso in cui la revoca non sia disposta dalla Prefettura quale organo esecutivo (di una sentenza penale passata in giudicato) ma quale organo amministrativo, il provvedimento non può essere adottato decorsi oltre tre anni dal fatto, o, meglio, dall’accertamento del medesimo da parte degli agenti, cioè decorso il periodo di inibizione alla guida previsto dall’art. 219, comma 3, Codice della Strada. Conclusione che ha trovato numerosi avalli giurisprudenziali (“il termine di tre anni per il conseguimento di una nuova patente di guida decorre dalla data del fatto, ovvero dalla data di commissione del reato” (Giudice di Pace di Udine, sentenza n. 435 del 14/9/2017; la data certa è quella dell’accertamento del reato (…) per data di accertamento del reato deve intendersi – secondo un’interpretazione coerente e logica dell’art. 219, la data di contestazione della violazione da parte dell’Organo accertatore”; Tar Veneto 15 luglio 2016, n. 829, Tar Piemonte, 14 ottobre 2015, n.1415; Tar Veneto, 9 marzo 2015, n. 2881; Tar Veneto, 15 giugno 2016, n. 639). E che non può dirsi superata dalla recente sentenza della Corte di Cassazione, II sezione civile, n. 13508 del 20/5/2019 che si è ritenuto, sulla base però di una frettolosa interpretazione, affermi che il dies a quo di decorrenza del periodo triennale di inibizione alla guida debba farsi coincidere con quello del passaggio in giudicato della sentenza penale.


    La Suprema Corte, infatti, compie  nella citata sentenza una distinzione fondamentale sul tema qui affrontato: quella tra l’art. 219, comma 3 ter c.d.s. (che, come noto, disciplina la durata del periodo di inibizione alla guida a seguito di revoca della patente per l’ipotesi di cui all’art. 186 c.d.s.) e l’art. 224, comma 2, c.d.s. che individua nella Prefettura l’organo esecutivo della sanzione amministrativa accessoria (della revoca) applicata dal Giudice penale con una sentenza penale passata in giudicato.


    Scrive infatti la Corte “la revoca della patente è un atto ad efficacia istantanea adottabile dall’autorità amministrativa solo una volta che la sentenza penale di condanna sia passata in giudicato. Non vale, dunque, richiamare, al fine di affermare, come fa la sentenza impugnata, che la revoca della patente decorre dalla data della commessa accertata violazione, l’articolo 219 comma 3 ter, trattandosi di norma che non attiene all’istituto della revoca pronunciata dal giudice penale e che non è diretta a disciplinare la decorrenza dei suoi effetti. Tale norma non ancora al periodo dilatorio (prima del quale la nuova patente non può essere conseguita) al provvedimento di revoca, ma all’accertamento del reato. Pertanto stabilire cosa l’art. 219, comma 3 ter intenda per “accertamento del reato” serve ad individuare da quale momento va calcolato il triennio prima del quale la nuova patente non può essere rilasciata, ma non a stabilire da quando decorra la revoca della precedente patente (che costituisce l’oggetto del giudizio de quo)” (Cass. civ., II, 20/5/2019, n. 13508).


    In altri termini, per la Corte un conto è stabilire da quando decorre la revoca della “vecchia” patente e un conto è individuare da quale momento vada calcolato il triennio prima del quale la “nuova” patente non può essere rilasciata.


    Nell’ipotesi in cui la revoca della patente venga disposta dal Giudice all’esito di un procedimento penale (trattandosi di una sanzione amministrativa accessoria ad una sanzione penale comminata ai sensi dell’articolo 222 c.d.s.) la stessa andrà concretamente e materialmente applicata una volta che la sentenza sia divenuta irrevocabile (perché prima a ben vedere non vi sarebbe alcuna revoca da porre in esecuzione); ma altro è il periodo di inibizione alla guida che, quale obiter dictum, la Corte escluda debba necessariamente coincidere con il momento da cui iniziano a decorrere gli effetti della revoca stessa.


    Nel caso affrontato dal Giudice di Pace di Treviso, si è detto, non si era di fronte ad una revoca quale atto dovuto emesso in forza di una sentenza passata in giudicato ma ad provvedimento amministrativo che la Prefettura ha emesso nel momento in cui il triennio di inibizione alla guida (decorrente dall’accertamento del fatto e non dal passaggio in giudicato di una sentenza penale che peraltro, dichiarando estinto il reato, alcun accertamento poteva contenere) era già e ampiamente decorso (erano passati tre anni e cinque mesi). Quando, in altri termini, il potere di emettere quel provvedimento doveva ritenersi già esaurito.


    La Suprema Corte (questa volta Sezione Penale) con una recentissima sentenza ha ribadito quanto sopra.


    Invero, con la pronuncia n. 126 del 7/1/2020 la IV Sezione Penale ha affrontato, nuovamente, un caso di revoca disposta dal Prefetto ai sensi dell’art. 224, comma 2, c.d.s. (quindi quale organo esecutivo di una statuizione penale).


    Scrive la Corte “quindi è l’articolo 219, comma 3 ter, che indica il termine triennale, una volta decorso il quale è consentito al soggetto di conseguire una nuova patente di guida […] Ed è il Prefetto competente per territorio che, quale organo dell’esecuzione della sanzione amministrativa accessoria (irrogata dal giudice penale), si occupa della fase di modulazione del triennio, decidendo se esso è decorso o meno e conseguentemente ammettendo meno il soggetto nuovo esame di guida”.


    Si possono verificare, in altri termini, casi in cui il Giudice Penale dispone la revoca all’esito del giudizio penale, la sentenza con cui viene applicata passa in giudicato, la revoca va disposta dal Prefetto quale atto vincolato/dovuto (perché il Prefetto ai sensi dell’art. 224, comma 2, c.d.s. non può fare altrimenti) ma nei fatti non vi è alcuna inibizione alla guida in quanto già decorso il termine triennale.


    E ciò può accadere anche perché, come stabilito nella citata sentenza, dal periodo di inibizione (triennio secco) va comunque e in ogni caso sottratto il periodo di sospensione della patente (sottrazione che la Prefettura di Treviso nel caso de quo, come si può leggere nella sua memoria di costituzione, esclude invece categoricamente).


    Prosegue, infatti, la Corte “può dedursi una analoga natura che caratterizza la sospensione provvisoria della patente di guida e la revoca della patente di guida. In entrambi i casi si tratta di sanzioni adottate ai fini di prevenzione generale, cioè al fine di impedire al soggetto la reiterazione di condotte analoghe a quelle già poste in essere e a tutela dell’incolumità pubblica generale a fronte di condotte idonee a suscitare un particolare allarme sociale. Questo costituisce un argomento che porta ad assimilare la valenza delle due sanzioni e che non impedisce di ritenere che la revoca costituisca la sanzione definitiva in progressione rispetto a quell’applicata in via provvisoria mediante la sospensione provvisoria prefettizia”, con la conseguenza che è per la Cassazione condivisibile “la prospettazione in forza della quale il triennio di revoca (triennio secco) va conteggiato dall’accertamento del reato da intendersi quale accertamento del fatto reato da parte degli agenti operanti” e, ancora, “che prima del giudicato, la sanzione amministrativa accessoria [ndr della revoca] non si è stabilizzata come dictum e quindi la figura esecutiva del prefetto non posso ancora entrare in gioco, non significa che il triennio deve essere calcolato solo dal giudicato essendo diversi gli ambiti” (confermando in tal senso anche la pronuncia della Seconda sezione civile sopra richiamata).


    Concludendo, quindi, decorso di un periodo superiore ai tre anni dall’accertamento del fatto da arte degli agenti operanti, la Prefettura – che interviene in via autonoma, si pensi per l’appunto ai casi di intervenuta estinzione del reato – non può emettere il provvedimento di revoca della patente; del resto, come evidenziato nella pronuncia del Giudice di Pace qui richiamata, che conferma tale orientamento, l’arco temporale intercorso tra il fatto e la revoca renderebbe comunque incompatibile il provvedimento di inibizione alla guida con “fini di prevenzione generale di reiterazione di condotte pericolose oramai ampiamente esauriti”.

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L’art. 1669 c.c. può essere preventivamente derogato su accordo delle parti?

L’articolo 1669 c.c. è stato ritenuto dalla suprema corte, con giurisprudenza costante, una norma che prevede una responsabilità extracontrattuale di ordine pubblico. Infatti la funzione della norma è quella di promuovere la stabilità e la solidità degli edifici e degli altri beni immobili destinati per loro natura a lunga durata così tutelando l’incolumità e la sicurezza dei cittadini.

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    Emblematica sul punto una decisione della S.C. laddove a fronte del manifestarsi di vizi di una costruzione (un capannone) il progettista si difendeva sostenendo che l’edificio era stato realizzato, su indicazione del committente, con criteri di economicità di cui si chiedeva il giudice volesse tenere conto. Inequivocabile la riposta della Corte :“per quanto riguarda poi il richiamo ai criteri di assoluta economicità con i quali era stato costruito il capannone per espressa volontà dei committenti è sufficiente rilevare che – come ripetutamente chiarito da questa Corte – la responsabilità per gravi difetti di cui all’art. 1669 c.c. è di natura extracontrattuale sancita al fine di garantire la stabilità e la solidità degli edifici e delle altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata e di tutelare, soprattutto, l’incolumità personale dei cittadini e, quindi, interessi generali inderogabili che trascendono i confini ed i limiti dei rapporti negoziali tra le parti (in tal senso, tra le tante sentenze, 14 agosto 1997 n. 7619; 15 luglio 1996 n. 6393; 9 gennaio 1990 n. 8). Ne consegue che la detta responsabilità non può essere rinunciata o limitata con pattuizioni particolari dei contraenti. Le asserite esigenze di economicità dei committenti, quindi, non avrebbero dovuto condizionare il progettista e direttore dei lavori comunque tenuto a realizzare il capannone in questione a regola d’arte” (Cass. Civ. 7.1.2000, nr. 81).

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